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La zona di interesse
Jonathan Glazer


Un film astratto, dove quello che si vede sullo schermo non è che la negazione indifferente e stolida del reale che invece traspare da un ordito sensoriale fatto di suoni terribili e fugaci immagini mortifere che penetrano dal muro di cinta della graziosa villetta borghese dove nel 1943 viveva, proprio accanto al lager di Auschwitz la famiglia del direttore del campo di concentramento Rudolph Hoss. Lui racconta le favole ai bambini per farli addormentare, porta la famiglia in gita al lago, gioca con il cane, pensa con dedizione a come ottimizzare lo sterminio di centinaia di migliaia di persone che avviene esattamente accanto alla casa di famiglia. La moglie si dedica alla cura della casa e del giardino, alle chiacchiere con le amiche e a tenere in riga la servitù e la sola idea di trasferirsi da quel luogo paradisiaco in cui può concimare il suo bel giardino con la cenere proveniente dai forni crematori mette in crisi il suo mondo. Quando un possibile trasferimento del marito in altra sede sembra costringerla ad abbandonare la sua casa accanto al lager si oppone ferocemente, si rifiuta di rinunciare all'armonia da agiata borghesia che ha raggiunto. Su tutto incombe quel buio con cui inizia per qualche minuto il film, ma che viene costantemente e consciamente negato nonostante si intrufoli attraverso i suoni agghiaccianti della morte e della sofferenza che provengono dal campo. Il ritratto della banalità del male non potrebbe essere più completo. Come Heichmann nel processo descritto da Hannah Harendt affermava che lui, in fondo, si occupava solo di far funzionare bene la rete ferroviaria (che questa trasportasse gli ebrei allo sterminio in fondo era un particolare che non lo riguardava), così Hedwig, la moglie, può affermare che voleva solo garantire alla sua famiglia una vita felice e armoniosa. La grandezza del film di Glazer sta nel non aver bisogno di mostrare direttamente le immagini dell'orrore, ma attraveso i suoni e musica far emergere quelle immagini nella mente dello spettatore, che sta guardando tutt'altro. Il tema dell'Olocausto è già stato toccato ma qui si rifugge dalla retorica e dalla mostrificazione dei nazisti, sembra alludere ad un male morale che non è estraneo a nessuno e che affonda nell'antropologia umana e nell'autoesaltazione della difesa tribale. Per questo il male assoluto non può essere confinato in un momento storico di pazzia furiosa, ma è una realtà sempre presente con cui tutti dobbiamo fare i conti. E che solo nella sua autonegazione diventa realtà, facendo della gestione del genocidio un banale compito di organizzazione aziendale con le sue burocrazie e con le aspirazioni di carriera per avanzare nel riconoscimento dei propri sodali nella macchina del potere dispotico. Che disumanizza e nientifica l'altro da sè