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The Brutalist
Brady Corbet (Universal)
"The Brutalist" è un film molto ambizioso, ma alla fine di troppa ambizione rimane vittima. Figlio di 10 anni di lavoro di quello che viene definito "il più europeo dei registi americani": Brady Corbet è una epopea che affronta temi enormi e complessi: il trauma più devastante della storia moderna, l'Olocausto" e le sconvolgenti conseguenze sugli individui che ne sono stati travolti e sono sopravvissuti, l'arte nel suo rapporto con il denaro e la logica del capitalismo, il rapporto tra il genio e il potere, il razzismo e l'antisemitismo più o meno strisciante, la dura realtà nascosta dallo retorica del sogno americano..
La storia (di fantasia, ma che richiama quella di alcuni importanti architetti europei emigrati negli Stati Uniti dopo traumi della seconda guerra mondiale) dell'architetto ungherese Laszlo Toth (un come sempre straordinario e sofferente Adrien Brody) che approda negli Stati Uniti dopo essere sopravvissuto al campo di concentramento funziona tanto più è personale ed intima, esistenziale (il che coincide grossomodo con la prima parte del film). Dal caos dell'arrivo in America nel crogiuolo di lingue e disperazioni dei migranti, alla lotta per la sopravvivenza tra le pulsioni razziste della società americana fino al ricongiungimento con la moglie (ottenuto tramite l'interessamento del magnate americano che lo prende sotto protezione) anche lei sopravvissuta, ma con danni fisici enormi, al lager, il film è narrativamente impeccabile e di grande potenza. Come osservato giustamente da Irene Graziosi nella sua recensione che sotto colleghiamo, il ritrovarsi tra due persone che hanno vissuto un trauma talmente devastante da rendere problematico qualsiasi reinizio di rapporto trova un momento talmente vero nel dialogo durissimo e altresì pieno di amore e volontà di salvezza che i due hanno quando si ritrovano a letto dopo tutti gli anni e le distanze accumulate da risultare quasi imbarazzante per lo spettatore messo di fronte ad una intimità tanto tragica. Quando poi (nella seconda metà) il film diventa a tesi, descrivendo il conflitto tra la creatività dell'arte e il genio con l'arroganza del potere mercantile e della ricchezza, tra la cultura europea e l'egomania e senso di inferiorità dei "padroni dell'universo" (per mutuare l'espressione di Tom Wolfe) americani, il film sfiorisce in didascalismi e soluzioni narrative risibili (serviva veramente una violenza sessuale del magnate americano sul geniale artista europeo per rendere chiaro il rapporto rapace e prevaricatore oltreché invidioso e impotente tra le due figure centrali del film? Verrebbe da dire, alla romana: "Ma che? Davero?"). Certo il film non perde grande espressività visiva e le scenografie memorabili, non annoia mai, ma sfiora l'irrilevanza (se non il ridicolo. Vale la pena di vederlo? Certamente si. Rimarrà nelle nostre teste come il capolavoro che vorrebbe (e avrebbe potuto) essere? A ognuno il suo parere, ma crediamo di no.