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Killers of the Flower Moon
Martin Scorsese


Alla ricerca del cinema perduto, la missione del grande vecchio della cinepresa Martin Scorsese continua, con qualche stanchezza, molto mestiere e con uno sguardo che ci riporta (come in altri film precedenti, "Gangs of New York" ad esempio) alle radici della nascita dell'America, a mostrarci i fondamenti violenti e settari su cui la nazione è stata costruita e che si ripercuotono fino ai giorni nostri. Una epopea che ci racconta senza gli schematismi consueti della appropriazione indebita di un paese a discapito delle sue popolazioni native da parte di colonizzatori bianche mossi principalmente dall'avidità di denaro e potere. Ma la situazione di partenza di questa storia è ribaltata rispetto ai canoni classici: la tribù degli indiani Osage, forzatamente spinti nelle riserve dell'Oklahoma, si trova negli anni attorno al 1920 improvvisamente ricca e dominante dopo la scoperta del petrolio nel territorio arido a loro assegnato. I bianchi sono il gradino basso della scala sociale: sono gli autisti, le cameriere e i manovali dei ricchi "figli del sole". Ma sono ingenui, incapaci di rapportarsi slla sconfinata sete di denaro e potere dei bianchi, incapaci di rapportarsi alla nuova economia capitalista che non si ferma di fronte a nulla per l'accumulo. La strategia di appropriazione (sotto la regia del "Padrino" interpretato da De Niro e perpetrata da un esercito di stolidi approfittatori bianchi) è quella di eliminare sistematicamente i nativi per appropiarsi dei loro beni. Gli osage vengono sistematicamente e progressivamente uccisi, i loro beni passano di mano ai bianchi attraverso il sistema dei matrimoni misti e dei prestiti capestro. Il nipote del padrino, un Leonardo di Caprio reduce dalla prima guerra mondiale che per avidità e stupidità diventa pedina nel disegno di conquista dello zio si troverà al centro di questa serie di crimini che sono commessi con indifferenza e stolida determinazione più per igniranza che per cattiveria. E' sinceramente innamorato della moglie indiana e dei figli avuti con lei. Sa che in realtà la sta avvelando piano piano per entrare in possesso dei beni della sua famiglia, ma non se ne vuole rendere neppure conto, nell'autoinganno di agire per amore,. Obbedisce agli ordini dello zio per ottusità, per amore del denaro e per manipolazione subita. Tutto il mondo dei bianchi (mente diabolica e mistificatrice dello zio/padrino a parte) è segnato da questa banalità del male, dall'indifferenza per qualsiasi cosa non sia il piccolo tornaconto personale. E gli Osage stessi (rappresentati dalla moglie innamoratissima di Di Caprio, che fino all'ultimo non vede la sua mostruosità) sono ciechi perchè incapaci di capire la meschinità e il tradimento, capaci solo di guardare il mondo con il loro sguardo fiero e sprezzante. E Scorsese realizza un affresco caratterizzato da gigantismo ma che è principalmente un gioco di corpi, di parole, di atteggiamenti e di sguardi. Ed è un film basato su grandi prove attoriali, da un De Niro che finalmente gigioneggia solo il giusto ad un Di Caprio sempre più bravo quanto più imbolsito e controverso, all'attrice nativa Lily Gladstone che è perfetta nel suo ruolo di abbandono alla sconfitta che è la rappresentazione del suo popolo, per non parlare dei vari camei presenti in questa che quacuno ha giustamente definito "una ballata per avvoltoi". E un finale da antologia del cinema, con monologo del regista e effetti sonori da cinegiornale d'avanspettacolo ci fa perdonare alcune stanchezze che si sentono in questo film dalla durata eccessiva (sembra proprio che inchiodare lo spettatore alla poltrona per tre ore e mezza sia una forzatura voluta solo per sottolineare la polemica Scorsese ha con la serialità televisiva). Ma mai rinunciare ai classici, anche se non alle vette più alte.