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Million Dollar Baby

Clint Eastwood | 01 distribution

Il bisogno di emancipazione è più forte della fatica, del dolore, della disperazione ed è proprio ciò che spinge i personaggi interpretati da Clint Eastwood, Hilary Swank e Morgan Freeman ad incrociare le proprie esistenze, ognuna costretta ad una logorante solitudine. Clint Eastwood è un'allenatore (la boxe è l'argomento in discussione) con un passato glorioso e un presente opaco e malinconico. Il personaggio di Morgan Freeman in palestra ci vive proprio, ma è nella vita è stato messo all'angolo, senza possibilità di ritorno. Hilary Swank è invece una ragazza che vuole assolutamente emergere, ma è costretta a dividere le sue giornate tra il lavoro quotidiano di cameriera e l'allenamento in palestra dove non la guarda nessuno. In entrambi i casi, tra i piatti e i servizi di un tavola calda e sfiancandosi contro il sacco con i guantoni, sente la vita scivolarle via finché non riesce a convincere il vecchio allenatore a portarla sul ring. Ne nasce una storia scrupolosa di ascesa e caduta, dove il prezzo da pagare per la vittoria, per il successo e in fondo per la gloria alla fine è troppo alto. La regia di Clint Eastwood che da tempo ha una cifra ben precisa non perde tempo in dettagli e frattaglie, tiene le luci basse e di taglio ed è asciutta, diretta, persino crudele nel dipanare la storia di una ragazza da un milione di dollari che sfiora il suo sogno e lo vede sfumare. Toccante.Il miglio in realtà è soltanto l’ultimo corridoio prima della sedia elettrica e nel braccio diretto da Paul Edgecomb (interpretato da un bravissimo Tom Hanks) sono quattro i predestinati alla pena capitale. Louisiana, 1935: tra di loro, ultimo arrivato, c’è anche John Coffey (interpretato da Michael Clarke Duncan) su cui grava l’accusa di aver trucidato due gemelline. L’uomo, un gigante che parla per enigmi, è dotato di doti che vanno oltre la conoscenza terrena e ben presto il miglio, verde perché così vuole il colore del suo pavimento, diventa un microcosmo in cui le relazioni umane, tra i detenuti e i secondini, tra questi e le loro famiglie, si evolvono fino a svelare nodi difficili da sciogliere. Per oltre tre ore, scena dopo scena, l’elegiaco racconto di Stephen King diventa una sorta di rappresentazione teatrale in cui il regista è bravo a dissimulare l’aspetto claustrofobico del carcere (e in particolare del braccio della morte) per ricavarne una morale, nemmeno tanto nascosta, su quel briciolo di speranza che può nascere in ogni angolo di questo mondo, anche il più buio e profondo. Splendidi gli attori che assecondanto Tom Hanks e Michael Clarke Duncan, da David Morse a Barry Pepper, da Sam Rockwell a Bonnie Hunt per finire con il solito, stralunatissimo (e altrettanto bravo) Harry Dean Stanton, forse il vero elemento metafisico del film.

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