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Il ponte delle spie
Steven Spielberg


Far uscire nelle sale un film in contemporanea con il nuovo episodio di "Guerre stellari", preannunciato killer del box-office di quest’anno, può sembrare una scelta suicida, che tuttavia ha la sua ragione nel puntare a soddisfare un pubblica sostanzialmente diverso da quello delle spade laser e dei cavalieri Jedi: per chiunque non voglia finire nella bolgia del fantastico intergalattico, il "Ponte delle spie" si pone come ottima alternativa di visione. Se poi si tratta di un film intrecciato a storie di spionaggio dei primi anni '60, se è diretto da Steven Spielberg, se vede la collaborazione alla sceneggiature dei fratelli Cohen e se presenta un cast di attori di primissimo livello (a parte il solito Tom Hanks, oramai diventato una icona spielberghiana, da citare il fantastico Mark Rylance, ineffabile colonnello del Kgb di stanza a New York), è impossibile non crearsi delle grandi aspettative. Forse proprio queste grandi aspettative giocano però un brutto scherzo allo spettatore.

Certo, si tratta di un grande film "classico", diretto in modo magistrale, con una ricostruzione d’ambiente formidabile, fotografato benissimo, in cui tutto il meccanismo gira alla perfezione (come nella iniziale scena di inseguimento alla spia nel metro, vero esercizio di virtuosismo registico). Insomma, si tratta di una grande produzione di cinema. Tuttavia se ci si aspetta un capolavoro, non si può che uscire dalla sala cinematografica parzialmente delusi. Non tanto per i tempi piuttosto lunghi del film (che in realtà sono usati sapientemente per spingere lo spettatore a godere dei dettagli impressionanti messi in gioco), ma perché questo grande prodotto non riesce a lasciare una traccia profonda nello spettatore. L’avvocato Davidson (Tom Hanks), che si occupa in un grande studio soprattutto di cause assicurative, viene inaspettatamente chiamato a difendere una spia sovietica arrestata mentre opera sul suolo americano, rendendolo così odioso agli occhi dei suoi connazionali. Con la sua dirittura morale e la passione calvinista per il proprio lavoro, assurge da "ordinary man" a testimonianza della superiorità del sistema civile americano, impegnandosi a garantire la difesa del "nemico" per antonomasia anche a costo di mettere in difficoltà la sua famiglia, il suo studio e lo stesso sistema giudiziario, che propenderebbero per una coerenza di mera facciata, piegata in realtà agli interessi politici e alla conquista della pubblica opinione. E alla fine non esiterà a mettere in pericolo anche la propria vita per gestire uno scambio di spie che salvi delle vite viste dai "sistemi organizzati" solo come figure reiette da usare per scopi propagandistici o come mera merce di scambio. E’ una storia in cui emergono, nella falsità e nella ipocrisia dei giochi politici e di spionaggio, gli uomini "tutti di un pezzo", che non esitano a gettarsi nella mischia a prezzo anche di sacrifici personali ma la cui coerenza viene premiata e permette di guardare gli altri a testa alta. Una storia edificante, che però non trova una sua profondità, tratteggiata in opposizione ad un mondo macchiettistico di utilitarismo e di ideologia retorica, e che risulta simpatica e godibile, ma alla fine fiacca e senza la potenza di altri film di Spielberg. Per capirci, siamo più dalle parti di "The Terminal" che da quelle di "Schindler’s List", di "Salvate il soldato Ryan" o di "Minority Report".

Regia: Steven Spielberg

Sceneggiatura: Matt Charman, Joel ed Ethan Cohen

Fotografia: Janusz Kaminsky

Attori: Tom Hanks, Mark Rylance, Amy Ryan, Alan Alda

Produzione: Usa (DreamWorks, Fox Pictures)

Anno: 2015